Scritti e pubblicati per il quotidiano online Rosso Parma nella rubrica da me realizzata e curata Counsleing con Ciabattoni Letizia
Se vuoi leggere gli altri clicca qui sotto
Written by dr.ssa Letizia Ciabattoni
Published on 11 november 2019
Cambiare lavoro può essere causa di forte stress: per la paura di fallire nell’impiego, perché significa rimettersi in gioco in un ambiente di cui non si conoscono i nuovi scenari lavorativi. Dietro queste paure si nascondono le normali incertezze legate ai rapporti con eventuali futuri colleghi, il nuovo ufficio e se ci mettiamo in proprio anche il terrore di non sbarcare il lunario a fine mese tra IVA, fatturazioni, fornitori e clienti. È quindi giusto farsi qualche domanda sul nuovo lavoro senza che esse diventino un freno alla voglia di cambiare. La maggior parte delle domande che tutti si fanno alla vigilia di un nuovo impiego, può portare non solo stress, ma anche ansia e depressione nei casi peggiori: “Non conosco nessuno”, “Sarò bravo nel nuovo lavoro?”, “Cosa penseranno tutti di me?”, “E se non fossi bravo abbastanza?”, “E se avessi preso una decisione avventata?”. Queste sono solo alcune delle domande che passano per la testa prima del gran giorno e solitamente siamo tentati a rispondere ad ognuna di essa in veste pessimista e negativa. Andarsene da una realtà conosciuta verso il cosiddetto ignoto è sempre difficile anche se necessario in certi casi e salvifico in altri. Ecco che sono qui a darvi qualche piccolo spunto di riflessione per aiutarvi in questo delicato momento di transizione. La prima regola tra tutte è quella di armarsi di tanta pazienza perché per conoscere i colleghi e capire le dinamiche interne ci vorranno del tempo e molta calma. In secondo luogo è importante credere in noi stessi e ricordarsi che anche quando iniziammo a lavorare per la prima volta non si conosceva nessuno. All’inizio qualche difficoltà nel lavoro sarà normale ma non appena si prenderà confidenza con l’ufficio, le persone e le eventuali nuove procedure tutto ci sembrerà all’improvviso più facile. Teniamo sempre a mente il perché si è scelto questo cambiamento senza guardarsi indietro, soprattutto all’inizio quando si affronteranno i normali momenti di sconforto. Se il nuovo lavoro è quello che si sognava da una vita può capitare di non sentirsi adeguati alla posizione ma nemmeno per un attimo ci si deve dimenticare che con la costanza niente è impossibile. A maggior ragione se tenteremo la strada del libero professionista, sarà anche complesso passare da una forma mentis da dipendente a lavoratore autonomo. La domanda tipo: “Ho fatto degli investimenti su questo nuovo lavoro, se qualcosa va storto?” Se il nuovo lavoro è autonomo è normale sentirsi incerti ed è per questo importante crearsi un piano B per prepararsi a tutte le eventualità. Se le cose diventassero difficili sarebbe davvero utile avere più possibilità per dirottare le proprie scelte in ambiti diversi e non perdere l’investimento fatto. Per investimento non intendo quello esclusivamente economico ma anche quello mentale ed energetico. Quando l’ansia la fa da padrone sapere di avere una via d’uscita è fondamentale. Bisogna però ragionare sempre in termini positivi: le parole sono importanti, per cui, di fronte al nuovo lavoro meglio pensare che si sta cambiando, che abbiamo avuto la possibilità di scegliere e che siamo stati bravi a cogliere un’alternativa a quello che già facevamo. Non è possibile prevedere e perciò gestire tutto quello che ci riserverà il futuro per cui ora è il momento di concentrarsi su quelle che abbiamo tra le mani. La passione, la pazienza, la creatività, l’esperienza, le motivazioni sono tutti fattori che ci rendono unici e per questo riusciremo sicuramente a cambiare lavoro e vita con successo. Ci vorrà magari un po' di pazienza e di ricerca ma ci riusciremo. Paola di Counselor!
Written by: dr.ssa Letizia Ciabattoni
Published: 13 april 2019
Jung, a proposito di vocazione e nevrosi asseriva (Lo sviluppo della personalità,1932): “La nevrosi è un tentativo, talvolta pagato a caro prezzo, di sfuggire alla voce interiore e quindi alla propria vocazione […]. Dietro la perversione nevrotica si cela la vocazione dell’individuo, il suo destino, che è crescita della personalità, piena restaurazione della volontà di vivere, che è nata con l’individuo. Nevrotico è l’uomo che ha perso l’amor fati; colui, invero, che ha fallito la sua vocazione […] ha mancato di realizzare il significato della sua vita”. Decisamente, seguire la propria strada, o la propria vocazione a livello lavorativo, amoroso, per lo stile di vita più consono ai propri valori, può fare una gran paura perché richiede di mettere in discussione “certezze” e di abbandonare le idee rassicuranti che ci danno la sensazione di detenere il controllo di ogni cosa ci circonda nella vita. Va fatto presente che la vocazione non sempre coincide necessariamente con il successo o con la serenità. Trattasi molto più “banalmente” della propria strada da percorrere che essa sia: grande, piccola, bella, brutta, triste, felice, in salita, in discesa, questo potrebbe dipendere da svariati condizioni intrinseche ed estrinseche. Ma perché è così difficile da individuare ancor prima che da inseguire? Molto probabilmente la paura del riscoprire se stessi e quindi anche l’eventualità di uscire dai classici schemi sociali comuni col rischio di sentirsi esclusi, diversi. Imparare a capire se stessi, rivalutando la nostra vera Essenza è un lavoro spesso estenuante e lungo, eppure può regalarti la forza di procedere a dispetto del pensiero dominante dettato molto spesso da come ci hanno detto che ci vorrebbero, come dovremmo comportarci, cosa dovremmo o non dovremmo pensare, sentire. Il motivo per cui vocazione e successo non sono fratelli gemelli sta nel fatto che il successo potrebbe dipendere da quanto si è bravi, furbi, preparati a inseguire e adattarsi al modello vincente, mentre la vocazione è incentrata sui valori, sul contributo che eventualmente può fornire all’esterno. Attenzione a non confondere ingenuamente la giusta strada da percorrere col piacere che possiamo provare nel seguirla. Troppo spesso viene confuso il piacere sociale, quello distorto dai modelli circostanti da un piacere genuino. Potrebbe invece capitare che seguire la propria vocazione sia molto meno piacevole, almeno inizialmente, del rimanere a galla sulle onde della omologazione. Uscire dalla zona di comfort può significare dover ammettere a se stessi di aver trascurata la propria Essenza, di aver assecondato un ego non del tutto in armonia con la nostra vera naturale inclinazione. Il tutto parte da una buona conoscenza di sé e un lavoro sulla propria consapevolezza intrinseca. Le scale in salita sono faticose soprattutto se siamo fuori allenamento e senza ascensore, eppure una volta arrivati in cima possiamo guardare dietro noi tutti quei gradini con estrema fierezza e pronti per un nuovo balzo in avanti. Parola di Counselor!
Written by: dr.ssa Letizia Ciabattoni
Published: 20 march 2019
Mamme che si sentono in colpa se dedicano alcune ore settimanali alla cura del proprio sé, figli che ormai adulti si sentono in colpa per non aver realizzato i sogni dei propri genitori, colleghi che sentono il peso della colpa nell’aver accettato di fare qualche ora di straordinario riscuotendo così a fine mese una paga più corposa dei colleghi. Come ben scriveva John Dryden, poeta inglese della fine del 1600: “Solamente l’uomo ostacola la sua felicità con cura, distruggendo ciò che è, con pensieri di ciò che dovrebbe essere.” Stiamo parlando di un’emozione che ci logora, consuma la nostra autostima (il valore che attribuiamo a noi stessi), l’autoefficacia (la possibilità di interagire con efficacia con il nostro ambiente circostante di riferimento) e la nostra sicurezza. Ci rende inferiori agli occhi degli altri, ci mette nella condizione di mancata percezione positiva di noi stessi. Compare, nell’uomo, verso i 18 mesi di vita, con lo scopo di ricordarci della presenza dell’altro da rispettare e di un codice etico e morale al quale sottostare per il quieto vivere sociale. La colpa, infatti, svolge anche funzione adattiva indispensabile alla crescita personale, all’accrescimento del senso di responsabilità e del dovere e ci permette, se moderata e non patologica, di capire che qualcosa non va, che potremmo aver commesso un errore, ferito qualcuno, permettendoci così di porre rimedio, riparare un “danno” compiuto anche involontariamente, grazie all’esternazione di scuse dovute e comportamenti atti a ristabilire gli equilibri. “Ma allora proprio non vi è via d’uscita, Dottoressa?”, mi è stato chiesto di recente da Angela. Rispondo, cara Angela che si esce dalla spirale del senso di colpa con la consapevolezza e l’accettazione che i propri errori sono spesso e volentieri riparabili. Non possiamo accollarci un senso eccessivo della responsabilità verso noi stessi e l’umanità intera. Non tutto dipende da noi. Non siamo stati eletti a martiri con lo scopo di espiare le colpe proprie e del resto degli abitanti della Terra. Non semplice, visto che gran parte dei nostri sensi di colpa hanno origini nelle interiorizzazioni delle norme che i nostri genitori ci hanno lasciato in eredità. Un grande terapeuta dei primi del novecento, Fritz Perls, sosteneva che: vivendo imprigionati nei propri cliché e nelle norme che regolano la società, l’individuo sviluppa le proprie nevrosi in quanto è come se viaggiasse tentando di tenere sempre bene a mente “ciò che è giusto e ciò che è sbagliato fare”, e non “ciò che vuole e ciò che sente”, rinunciando in tal modo alla propria autenticità. Questo ci fa capire quanto il senso di colpa possa essere considerato come un “forte ostacolo alla piena autorealizzazione di sé”. Ma oltre alla radici genitoriali, sembra anche che l’emozione del senso di colpa sia strettamente correlato con una immagine ideale di se stessi troppo distante dalla realtà e poco realistica. Aspettative troppo elevate che rischiano di non realizzarsi e che non permettono una vera conoscenza di noi stessi in maniera piena e completa. Ecco che alla luce di quanto scritto sino ad ora, possiamo provare a liberarci da questa seconda pelle del senso di colpa capendo innanzitutto se abbiamo realmente arrecato un danno a qualcuno, anche se fosse, magari è accaduto in maniera del tutto involontaria, o se più che altro il senso di colpa che proviamo sia dovuto ad un incresparsi della nostra immagine ideale e al nostro senso del limite: ricordiamoci di essere umani e che come tali possiamo sbagliare e avere dei limiti. Accettiamo la nostra fallibilità, concedendoci di essere più indulgenti con noi stessi in caso di fallimento, provando a circoscriverlo come episodio singolo e non come declino di tutta la nostra esistenza per generazioni e generazioni. Assumerci le nostre responsabilità è doveroso ma convincersi di potere detenere il controllo del mondo intero, essere rigidi e bacchettoni con noi stessi all’inverosimile, non solo ci rende frustarti e perennemente insoddisfatti e arrabbiati, ma ci allontana dalla realtà dei fatti e potrebbe compromettere le relazioni con gli altri, che esse siano di tipo lavorativo o affettivo. Evitiamo, se possibile, di identificarci nel mito di Atlante, punito da Zeus e costretto a tenere sulle proprie spalle l'intera volta celeste. Impariamo a conoscere noi stessi e ad accettare i limiti nostri e quelli altrui. Lasciamo le aspettative elevate al mondo del Fantasy, un mondo ricco di magia e di rinascite degne dell’onirico ma troppo spesso lontano dalla realtà quotidiana. Parola di Counselor!
Written by: dr.ssa Letizia Ciabattoni
Published: 11 march 2019
L’adolescenza, è ormai risaputo, è una fase della vita complessa, caratterizzata da importanti cambiamenti fisici, cognitivi, affettivi e socio-relazionali. Uno dei cicli di vita maggiormente costellato da compiti e sfide da affrontare e risolvere. Se tutto ciò non avviene nei tempi e nei modi più adeguati, vi è il rischio che sviluppo e benessere dell’adolescente vengano potenzialmente compromessi a seconda delle modalità e delle strategie che vengono adottate per affrontarli. Il disagio che un adolescente, potrebbe ritrovarsi ad affrontare, trae le sue origini proprio dalle difficoltà e dal dolore mentale che egli sperimenta nel dover affrontare e superare queste sfide evolutive così importanti e decisive per i successivi processi di sviluppo. Ecco che spesso vengono messe in atto delle mere strategie dannose e pericolose per la salute e il benessere dell’adolescente: l’uso di sostanze e di alcool, comportamenti più o meno aggressivi, di sfida, la guida spericolata, rapporti sessuali precoci e non del tutto desiderati. Ecco che un percorso di Counseling rivolto agli adolescenti può, nello specifico, essere di sostegno allo scopo di evitare che un momento di crisi o di stallo evolutivo si trasformi in una vera e propria “stagnazione”. Il counseling si pone l’obiettivo di evitare la paralisi delle competenze adattive dell’individuo e la cristallizzazione di un’identità negativa, favorendo al contrario l’esplorazione e l’attivazione di modalità costruttive e adattive di fronteggiamento dei compiti di sviluppo (Maggiolini, 1997). Ecco che il Counseling si configura come una tra le modalità ideali di colloquio e di ascolto con l’adolescente, in quanto trattasi di un intervento di breve durata nel tempo, che riconosce all’adolescente un ruolo attivo, che presuppone un rapporto alla pari con l’adulto e che promuove le capacità decisionali e relazionali. Secondo alcuni dati raccolti sul territorio nazionale negli ultimi anni, le richieste e le domande che gli adolescenti pongono ai professionisti sono i più disparati: il proprio corpo, la famiglia, la scuola, le relazioni con i coetanei del proprio e dell’altro sesso (Maggiolini, 1997; Fuligni e Romito, 2002; Maggiolini e Charmet, 2004). L’obiettivo principe del Counseling è quello di fornire agli adolescenti strumenti e strategie per fronteggiare le difficoltà relative ai compiti di sviluppo prima dell’insorgere di un vero e proprio disagio, facilitando cambiamenti nel comportamento e migliorando le capacità di relazioni interpersonali. Secondo Charmet (2000: “Quando gli adolescenti vengono a chiedere una consultazione è come se, metaforicamente, chiedessero il permesso di crescere o chiedessero scusa di non averlo ancora fatto, o di essere messi alla prova per verificare le loro capacità di stare ai patti. È come se l’adulto competente rappresentasse agli occhi dell’adolescente una sorta di protesi mentale per valutare realisticamente come stiano le cose […]. Spera di intercettare un allenatore che sa quali siano i percorsi per rifornirsi delle competenze necessarie a realizzare gli obiettivi”. Il Counselor può lavorare assieme all’adolescente sulla rivalsa dei propri punti di forza e delle proprie risorse sociali quali famiglia, scuola, amici, affinché venga evidenziata nell’adolescente la sua capacità di percepirsi come potenzialmente in grado di mobilitare risorse personali per fronteggiare in modo adeguato i problemi, di sentirsi competente e consapevole accrescendo la propria autostima e la percezione di autoefficacia. Autoefficacia intesa come la percezione che si possiede nell’essere in grado di portare a termine un compito con la consapevolezza di avere aspettative realistiche circa le proprie possibilità di successo in una data situazione problematica (Bandura, 1995). Favorire e potenziare tali aspetti in adolescenza, mediante attività di Counseling, equivale a rendere i ragazzi consapevoli delle proprie potenzialità e competenze, ingredienti indispensabili per affrontare con successo le sfide di sviluppo e adattamento al contesto che li circonda. Parola di Counselor!
Written by: dr.ssa Letizia Ciabattoni
Published: 23 february 2019
Nei giorni scorsi mi ha scritto L., chiedendomi perché attira solo persone negative, sbagliate, persone inadatte per costruire una relazione costruttiva, sia amorosa che amicale. Molto spesso, ciò accade perché nella nostra vita abbiamo imparato a vedere solo determinate caratteristiche in una relazione, di conseguenza attraiamo, in modo del tutto inconsapevole, a noi stessi, persone e situazioni che in parte sembrano essere un riflesso della nostra interiorità. Avere la sensazione di attrarre a se le persone cosiddette “strane”, originali, non è del tutto errata. Il focus sta nella “stranezza” che è presente dentro noi stessi e alla quale non diamo ascolto, voce in capitolo. Finché non accettiamo questa parte in noi, continueremo a proiettare, a trasferire sugli altri, tutte le parti di noi stessi, sia negative che positive, ritrovandoci perciò a ripetere questo schema all’infinito. Siamo attratti e attraiamo ciò che più ci è familiare e che parla di noi. Non di rado capita di essere consapevoli di tale meccanismo, per giunta anche malevolo per la nostra persona, eppure, pur di restare nella nostra zona di comfort, negativa o positiva che sia, continuiamo a circondarci delle stesse persone o situazioni negative (ma pur sempre a noi conosciute) con cui sentirci a nostro agio pur di sfuggire alla paura più o meno inconscia di sperimentare situazioni e relazioni nuove. Una ricerca pubblicata su Jama Psychiatry, ha evidenziato che persone che hanno caratteristiche psicologiche simili hanno una maggiore possibilità di piacersi e di conseguenza di iniziare una storia. Nello studio sono state analizzate oltre 700.000 persone archiviate nei database del sistema sanitario nazionale. La ricerca ha messo in evidenza che persone con disturbi mentali simili (ansia, fobie, ma anche dipendenze, disturbo bipolare, depressione, anoressia, disturbo ossessivo compulsivo…) si attraggono. La probabilità che la coppia condivida la stessa diagnosi è tre volte superiore rispetto al gruppo di controllo. Tale ricerca svela una realtà applicabile a chiunque, anche a chi non condivide alcun disturbo mentale. Il nostro inconscio, infatti, pare sia programmato per attirare le persone con caratteristiche il più possibile affini alle nostre, affinché sia possibile continuare ad apprezzare ciò che maggiormente ci è familiare. E fin qui tutto bene o almeno pare. Nel momento in cui abbiamo la sensazione di sentirci a disagio in questo continuo perpetuare di errate relazioni e dannose circostanze, possiamo fermarci a riflettere e metterci in connessione con quella parte di noi stessi che ci sta gridando freneticamente di cambiare strategia, di tirare il freno a mano e imboccare una nuova strada, forse meno battuta ma probabilmente meno frustrante e dolorosa. È proprio questa la fase cruciale: quella nella quale decidiamo di fermarci per fare inversione di marcia. Ci assale la paura dell’ignoto, del nuovo, la paura di non essere all’altezza di un nuovo viaggio. Siamo talmente in contatto, per abitudine, con la parte ombra di noi che temiamo di poter rimanere accecati dalla nuova luce che vorremmo raggiungere ed esplorare. Uscire dalla propria zona di comfort richiede fatica e un grande dispendio di energie, molto più che spesso e volentieri. Il timore di sentirci soli, incompresi o come degli alieni in una terra straniera, sono tutte sensazioni più che comprensibili eppure sono anche possibili da superare, forse non del tutto soli ma decisamente grazie all’ausilio di un professionista. Parola di Counselor!
Written by: dr.ssa Letizia Ciabattoni
Published: 9 febbruary 2019
Litigare sui social network, nelle chat, per telefono o via sms, sembra essere uno dei trend di questo contesto socio-culturale. Purtroppo si tratta di veri e propri litigi dai toni implacabili anche quando si commenta il post più banale. Su Facebook, Twitter, nelle chat di WhatsApp se ne leggono davvero di tutti i colori e cercare di starne fuori non è impresa affatto facile. Questa vita sempre più frenetica, aggiunto al sempre minor tempo trascorso in casa e al contatto diretto con partner, amici e familiari, ha come conseguenza che anche i diverbi tendono ad uscire dalle mura domestiche, per svolgersi in luoghi virtuali quali la rete e il web. Questi ultimi sono “ambienti” sempre più spesso teatro di insulti e scaramucce. Tutte queste nuove modalità di litigio allontanano da quello che dovrebbe rivelarsi come un confronto faccia a faccia. Privarsi della possibilità di chiarire guardandosi negli occhi, spesso porta il litigio ad acuirsi, scaldando ulteriormente gli animi, creando ulteriori malintesi, piuttosto che aiutare a trovare un punto d'incontro e a comprendere l'altro. Insomma, viene a mancare l'empatia che ci dovrebbe essere tra le persone. L’evoluzione tecnologica non è stata corredata di pari passo da una sorta di educazione online. Educazione nello scrivere coi toni migliori, con le espressioni meno aggressive, col giusto utilizzo della punteggiatura e facendo emergere anche il non scritto tra le righe. Italo Calvino, non proprio l’ultimo arrivato, adottava l’idea di rileggere, ripensare, rivalutare quanto detto o scritto. Essere costantemente connessi con chiunque e in qualsiasi momento, ci porta a vivere la diversità come una parte ormai consolidata della vita, entrando quotidianamente con i commenti e le discussioni nei nostri spazi di connessione virtuale, lasciando però dei meri strascichi anche nella parte del nostro quotidiano offline. Di fronte a questo, dovremmo imparare alcune tra le competenze di comunicazione di base per gestire il continuo confronto della vita social. Come asserisce Bruno Mastroianni (autore del testo: La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico): “Imparare a sostenere il proprio punto di vista davanti all’altro che non è d’accordo si può. È faticoso e richiede impegno e intenzionalità. La nostra tendenza è stare con i simili, rifiutare i diversi, cercare conferme, fuggire da chi mette in dubbio i nostri assunti. Una volta riconosciuto in noi questo istinto, ci si può lavorare, scoprendo ad esempio che le migliori idee nella vita di solito le abbiamo a seguito di un confronto o di una divergenza. Nessuno di noi vive come un intellettuale solitario in una torre. Conoscere è spesso “scontrarsi” con un pezzo di realtà che non si era notato fino a quel momento, spesso è proprio qualcuno con una prospettiva opposta a mostrarcelo.” Partendo da un vero e proprio distaccamento del punto di vista personale, dell’offesa percepita come alla persona in se piuttosto che ad un messaggio, una opinione o una idea, sarebbe già un buon modo per ripulire una risposta mordacee da tutta la presunta aggressività. Riflettere e prendere anche qualche sosta, un respiro profondo per evitare di dare delle risposte buttate la, di getto, magari anche con inequivocabili errori di battitura, senza la corretta punteggiatura. Imparare ad uscire dalla propria zona di confort, anche nel pensiero e nella propria presa di posizione, potrebbe rivelarsi un enorme esercizio di apertura mentale e crescita. Dissentire non equivale a eliminare dalla faccia dell’universo la persona che ha espresso una opinione, più o meno garbata, differente dalla nostra. Autoironia e sdrammatizzazione sono delle ottime armi indispensabili per abbassare toni di rabbia e odio da tastiera. Scendere dal pulpito della saccenza, imparando ad argomentare in maniera più semplice senza credere di essere in assoluto i detentori della verità estrema. Inoltre, la possibilità di rimanere in silenzio, senza per questo temere di sembrare deboli o privi di argomentazioni, può essere una tra le tante alternative plausibili. Ricordiamo che quando discutiamo sui social, non siamo semplicemente in due a discutere, vi è un infinito numero di lettori più o meno taciturni che seguono i nostri dissensi, facendo sì che il modo di esprimersi, la volgarità, la cattiveria gratuita e gli “orrori ortografici” prendano il sopravvento sulla questione della disputa in se, facendo sì a volte, che quest’ultima passi addirittura in secondo piano. Fatica sprecata! Ricordiamo che online equivale a: in pubblico e che una corretta comunicazione, un modo corretto di dissentire, di esprimere le proprie opinioni differenti è alla base di un modo civile e maturo di stare tra e con gli altri. E se poi la rabbia e la frustrazione sono talmente tante, prima di riversarla in rete, facciamo due chiacchiere dal vivo, e lavoriamo insieme su questo eccesso di aggressività latente. Si può fare! Parola di Counselor!
Written by: dr.ssa Letizia Ciabattoni
Published: 01 february 2019
Arrivano da me in consulenza, ormai mesi e mesi fa, Francesco e Vera (ovviamente i nomi sono fittizi per tutela della loro privacy) che si siedono e mi fanno immediatamente questa domanda: “Che male c’è se una coppia non desidera avere figli?” Oggigiorno, pensare che ci sia qualcosa di anormale, contro natura è ancora di moda? Trattasi di una scelta personale, eventualmente condivisa con il proprio partner ma di certo assolutamente lecita che non merita di essere additata o giudicata. Possono davvero essere molte le motivazioni che spingono tante donne e relative coppie a fare questa scelta, tutte motivazioni valide. Magari non ci si sente pronti ad avere bambini o non ci si vede nel ruolo genitoriale. Oppure semplicemente ci si vuole sentire “liberi” da determinate responsabilità. Eppure, ancora oggi, essere una donna o una coppia senza figli è una scelta che scatena pregiudizi sociali. La decisione di non procreare non dovrebbe essere vista come un difetto o un fallimento, che rende "meno donne" rispetto a chi, invece, opta per la maternità. Agli uomini che non vogliono diventare papà non sembrano richieste altrettante giustificazioni, o comunque non tanto pressanti, a differenze del fronte femminile. E questo dover dare spiegazioni e motivazioni, può scatenare disagi e la malsana sensazione di essere sbagliati. Cosa che non dovrebbe accadere, perché metter al mondo un figlio è sempre e solo una scelta individuale, che nessuno può mettere in discussione. Se la maternità o la paternità non rappresenta il tipo di identità che si desidera, allora è importante assecondare tale necessità senza farsi influenzare dal contesto sociale o familiare. Donne e uomini che non vogliono figli quando non sono considerati “strambi”, diventano automaticamente degli adulti egoisti e immaturi. La verità è che bisognerebbe accettare e rispettare il fatto che i figli non definiscono l'identità di una persona, tantomeno di una coppia e, soprattutto, non dovrebbero essere l'unico elemento della propria vita. La propria autostima e sensazione di autorealizzazione è composta da un insieme variegato di fattori, esistono madri e padri depressi e frustrati e donne e uomini senza figli centrati e felici. La felicità è uno stato dato da decisioni prese in totale serenità e libertà. Inoltre è davvero inutile e poco delicato continuare a ribadire il concetto che i figli sono una tra le esperienze più belle del mondo. Probabilmente lo sono, ma questo non significa che chi non ne desideri avere sia una persona arida e infelice. Poco pertinenti potrebbero essere le tipiche domandi quali: ma non senti l'orologio biologico? Non ci pensi mai? Non ci hai mai provato? I figli ti cambiano la vita, lo sai vero? Sbrigati a farli che quando li vorrai non è detto che arrivino. E poi chi si occuperà di te quando sari vecchio? Si vede che sei più concentrata sul lavoro e la carriera, te ne pentirai. Ma sei sterile? Queste sono tutte domande o affermazioni poco empatiche e davvero invasive. Ognuno può sentirsi libero e sereno in tale scelta e se il contesto circostante rischia di turbare tale serenità se ne può sempre parlare in totale libertà e accoglienza con un Counselor. Certe volte bastano davvero pochi incontri per liberarsi dal peso dei pregiudizi esterni, proprio come è accaduto a Francesco e Vera. Parola di Counselor!
Written by: dr.ssa Letizia Ciabattoni
Published: 29 January 2018
Un percorso di Counseling può aiutare a sentirsi protetti nella propria sofferenza, elaborando le emozioni più profonde, dalla paura, alla sfiducia, alla rabbia, rendendoci nuovamente capaci di amare noi, gli altri e la vita. All'interno di un percorso di Counseling si possono trovare spazio e tempo giusti per parlare della perdita della persona che si amava, rimanendo così, in maniera emotivamente sana, in contatto con i ricordi. All'interno del percorso di Counseling si può percepire il proprio dolore per poterlo elaborare, poiché certe volte il dolore è troppo profondo per essere affrontato da soli. Grazie al Counselor, alla sua compassione ed empatia, ci si può liberare della paura di un nuovo abbandono, di un ennesimo rifiuto, di soccombere sotto le macerie della catastrofe. Il Counseling è uno spazio e un tempo di qualità nel quale parlare o stare in silenzio consapevoli di non essere soli bensì accolti e compresi. Ciò vale per gli adulti e per i bambini. Parola di Counselor!
Written by: dr.ssa Letizia Ciabattoni
Published: 28 january 2019
Quante volte abbiamo la sensazione che le nostre emozioni, pura energia, debbano poter trovare uno sbocco, defluire liberamente e che se non lo fanno, ci sentiamo “ammalati”, stanchi, tesi, con mille mali sparsi tra: emicrania, mal di stomaco, insonnia, male alle spalle, al petto. Questo potrebbe significare che il nostro corpo sta somatizzando tutte le nostre emozioni represse, positive o negative che siano. Ovviamente senza escludere la presenza di problematiche di salute preventivamente controllate e monitorate da un medico curante. Ormai è noto il collegamento tra un disturbo del corpo e la sua eventuale corrispondenza di natura emotiva. Alla base c’è l’idea che la costituzione dell’uomo sia mente-corpo. In particolare, sono le emozioni dolorose che spingono il nostro corpo a difendersi e a manifestare conseguentemente il disagio su alcuni organi, cosiddetti bersaglio. Un mero meccanismo di difesa contro le emozioni che, portano il disagio nell’esprimersi, direttamente attraverso il corpo. Secondo innumerevoli ricerche ormai conclamate, i disturbi più diffusi sono quelli degli apparati: gastrointestinale , cardiocircolatorio e respiratorio. In casi simili, è molto utile una nuova consapevolezza da parte di chi soffre tali fastidi, della propria storia, delle proprie relazioni, al fine non solo di migliorare la qualità della vita a tutto tondo, sia a livello alimentare, sul piano dell’assetto posturale che un corpo può assumere a causa di tali problematiche, senza dimenticare un intervento integrato tra vari professionisti della salute, della medicina e del benessere, ognuno utilizzando il proprio settore di competenza fisico, mentale ed emotivo. Il Counselor in tutto ciò si propone di facilitare un maggior contatto con la propria dimensione corporea e il riconoscimento delle proprie emozioni, aumentando inoltre il senso di benessere e la serenità, agendo al fine di riportare la persona in una posizione di forza interiore e di gestione attiva del proprio benessere che massimizzi le possibilità di ripristino dell’organismo. In dettaglio, il Counselor può lavorare, ad esempio, assieme al cliente sul rafforzare il legame tra il cliente e il proprio corpo, educandolo a un ascolto corporeo che gli permetta di riconoscere come il corpo risponda alle sue emozioni in corrispondenza di eventi o sintomi determinati. Il Counseling è una relazione di aiuto che ha l’obiettivo di sciogliere i malesseri che rendono le persone insoddisfatte della loro vita. La tensione creata dalle frustrazioni può essere così intensa e duratura dall’essere convertita in sintomo fisico se non viene trovata un’altra modalità di trasformazione della stessa. Attraverso un rafforzamento del legame che la persona ha con il proprio corpo, egli lavora affinché essa si rimetta al centro dei processi e delle decisioni che riguardano la sua salute e, andando oltre, la sua propria vita. Il disturbo può così essere trasformato in un’opportunità di evoluzione per la persona, che il Counselor accompagna nella messa in atto dei cambiamenti reali che renderanno la sua esistenza più piena e soddisfacente. Parola di Counselor!
Written by: dr.ssa Letizia Ciabattoni
Published: 15 january 2019
Potrebbe capitare prima o poi che ci sentiamo pervasi dall’angoscia della perdita di un nostro amico peloso: cane, gatto, coniglietto o anche un pesciolino rosso o dei simpatici canarini. Ancor più potrebbe tediarci il pensiero di dover preannunciare la cosa al membro più giovane della nostra famiglia. La migliore delle soluzione sta nel dire subito la verità e non posticipando il momento del dolore, non trovando subito un sostituto, per dare a vostro figlio, a vostro nipote, il tempo di elaborare il lutto. La perdita dell’animale che si è sempre visto scorrazzare per casa o nella gabbietta, può essere decisamente un evento traumatico per i bambini oltre che per noi adulti ovviamente. Alcuni accorgimenti che potremo adottare ci sono e ve li suggerirò qui di seguito. La prima cosa da evitare nella maniera più assoluta è quella di mentire, senza inventare storielle sul fatto che Fido o Kitty stanno dormendo o sono andati via per un periodo, perché il bambino è legato a loro e aspetterà il momento in cui tornano all’infinito. Mentendogli, allungherete solo il loro dolore al punto di sentirsi prima o poi anche presi per il naso. Spesso capita che l’animale in questione sia malato o anziano, in tal caso è opportuno preparare lentamente e con gradualità il vostro bambino al distacco, rendendogli evidente la situazione, magari facendogli notare le fatiche e le debolezze dell’amico peloso: il fatto che non gioca più come una volta, che si stanca, insomma che sta male. Questo permetterà al bambino di prendere piena consapevolezza della situazione. Ovviamente cercheremo di trovare le parole più adatte ad ogni fascia di età, né troppo cruenti ma neanche troppo fantasiose e surreali. Non temete di mostrare anche i vostri sentimenti di tristezza e dolore mentre date la notizia della morte, inutile e poco educativo minimizzare o comportarci da supereroi privi di sentimenti. Concediamo ai bambini, ai ragazzi, a noi stessi, lo spazio di piangere e di arrabbiarsi. Facciamogli capire che anche noi siamo tristi e che comprendiamo in maniera assoluta il loro sentimento di dolore. Non dimenticate di scegliere insieme un giusto rito di addio da compiere tutti assieme in famiglia, ciò permettere di chiudere simbolicamente il cerchio della vita per dare spazio ai ricordi piacevoli trascorsi assieme al compagno di giochi. Tutto ciò, a prescindere dal credo di appartenenza o dal livello di spiritualità percepito in famiglia, andrà accompagnato dal racconto che il nostro amico animale si trova sicuramente in un posto meraviglioso, pieno di amore e dove può giocare e mangiare in abbondanza. Ricordiamo che in base all’età vi sono percezioni distinte della morte: a due anni di vita ad esempio, l’unica cosa che il bambino percepisce è che in casa c’è un po’ di stress, fino ai 5 anni i bambini non hanno l’idea della morte come di qualcosa di permanente, ma in reazione al dolore hanno comportamenti di regressione (ad esempio potrebbero fare la pipì a letto, anche dopo del tempo dal superamento di tale difficoltà). Dopo i sette-otto anni i figli cominceranno a chiedere dov’è l’animale. Vi sono molte valide pubblicazioni in commerci che parlano del tema del lutto e della perdita in base alla fascia di età che hanno i figli. Spesso una fiaba, soprattutto per i più piccoli, può rivelarsi un ottimo modo di catalizzare il tutto. Con gli adolescenti invece dobbiamo prestare maggiore attenzione, poiché la scomparsa dell’animale potrebbe attivare in loro tutti i pensieri di morte, che possono riguardare anche genitori o amici. Un altro valido motivo per cui non bisogna aver timore nell’affrontare questo argomento con loro, va trattato a viso aperto stando attenti a non farsi frenare da una delle più grandi paure di un genitore: morire e lasciare il figlio solo e abbandonato a se stesso. Anche qui, lasciamo che i bei ricordi di momenti trascorsi con il cucciolo possano essere condivisi ed esternati, magari anche con delle foto dell’animale come sfondo dello smartphone. In fine, evitiamo di rimpiazzare immediatamente il vecchio compagno di giochi con uno nuovo, non trattavasi di un giocattolo. Tale passaggio merita tutta la catarsi necessaria. Arriverà il momento giusto per riavvicinarsi a un nuovo compagno di giochi che non sarà un rimpiazzo e tantomeno una copia con la quale esorcizzare dolore e ricordi passati. Se ci ritroviamo con un buon livello di contatto emotivo, sia noi che i nostri figli, capiremo assieme quando sarà il momento giusto per accogliere nuovamente un nuovo animale in casa. Inoltre, potrete sempre rivolgervi ad un professionista che possa darvi qualche suggerimento in più o che possa affiancare noi e i nostri figli in questo delicato momento. Parola di Counselor!
Written by: dr.ssa Letizia Ciabattoni
Published: 12 january 2019
Quante volte ci siamo detti: “lo faccio domani”, che trattasi di cose piccole da affrontare o sfide più grandi, situazioni personali o lavorative. Non è del tutto colpa del nostro modo di filosofeggiare, la ragione del "lo faccio domani" sta nel cervello, ce lo dice uno studio scientifico che ha rivelato il perché tendiamo a posticipare sempre tutto e la ragione sarebbe più che plausibile: dipende dalla struttura del nostro cervello. Lo studio è stato riportato da Psychological Science e portato avanti dagli scienziati della Ruhr University Bochum e descrive in modo efficace come funzionano il cervello e le sue due componenti principali: l'amigdala e la corteccia cingolata anteriore (DACC). La prima è deputata a elaborare le emozioni e a definire i processi di motivazione; la seconda invece decide cosa fare di queste emozioni e se e come passare all'eventuale azione. Quindi è proprio la DACC a bloccare molto spesso i nostri comportamenti e quindi a indurci o meno a procrastinare. Dallo studio su 264 persone è emerso che ad amigdala più ingombrante corrisponde una capacità di procrastinare maggiore e che se i rapporti tra l'amigdala e la corteccia cingolata anteriore sono deboli, allora minore sarà la possibilità che noi decidiamo di fare o meno qualunque cosa. Eppure, l'esperto Tim Pychyl, che ha studiato i meccanismi della procrastinazione, ha rivelato che il cervello è un organo malleabile che possiamo cambiare con una giusta dose di training quotidiano. Sia chiaro, nessuno di noi probabilmente è immune dal rimandare a domani qualche attività, ma il 20 per cento circa delle persone, rimanda cronicamente per evitare compiti difficili e cercando distrazioni in maniera deliberata che, purtroppo, sono sempre disponibili. Proviamo a chiederci perché mai ci converrebbe non rimandare più, trovando una valida soluzione soggettiva e non una suggerita da altri. Le nostre motivazioni possono essere più persuasive in linea generale. Chiediamoci anche di cosa abbiamo bisogno per non temere di non riuscire a portare a termine il compito che continuiamo a rimandare da giorni, settimane o addirittura mesi. Maggiore autostima? Essere consci del fatto che ce la possiamo fare? Essere più fiduciosi nelle nostre capacità? Bene, allora iniziamo coll’immaginare, interiorizzando e credendoci che possiamo farcela, che le scelte dipendono da noi stessi. Impariamo a pensare che possiamo davvero fare tutto ciò che desideriamo, basta un minimo di organizzazione e di pragmaticità. Tutte cose già presenti nelle nostre competenze, probabilmente assopite o nascoste, quindi possiamo farle riemergere anche grazie all’aiuto di un percorso di Counseling adatto a noi stessi. Anche il perenne tira e molla nel ricercare supporto esterno, chiedendo sostegno professionale può essere un modo di procrastinare il più profondo desiderio di iniziare un lavoro su noi stessi. La paura spesso non aiuta. Allora possiamo imparare ad impegnarci lentamente, con cautela, un po’ per volta (chi va piano va lontano) ma comunque va, non resta incollato al terreno. Procedere a piccoli passi non è un errore, serve anche sondare un terreno nuovo per chi da sempre ha la tendenza a rimandare. Questo nuovo territorio può accogliermi? Mi sorreggerà? È il mio territorio? Come poter rispondere se non proviamo? Magari potrebbe essere anche divertente ed eccitante calpestare nuove strade. Ammettiamolo, alcune cose è davvero importante affrontarle con calma e a mente lucida ma rimandare costantemente farà si che ci ritroveremo con un accumulo di cose da fare che non sapremo neanche più da che parte iniziare, sentendoci stanchi, confusi e frustrati. Chi ben inizia è a metà dell’opera. Parola di Counselor!
Written by: dr.ssa Letizia Ciabattoni
Published: 07 january 2019 on Counseling Italia
Oramai è un dato di fatto, la scienza lo conferma: il volontariato fa bene non solo a chi lo riceve ma anche a chi lo fa. Innanzitutto chi fa volontariato è solitamente “obbligato” a stare in contatto con tante persone: altri volontari, bisognosi, coordinatori di varie strutture.. quindi non soffre la solitudine, ecco perché è un’attività molto consigliata alle persone pensionate in quanto li aiuta ad avere uno scopo rendendosi utili e non soffrendo la solitudine. Senza escludere il fatto che taluni tipi di volontariato, obbligano a stare anche all’aria aperta e a fare movimento. La cosa più importante tra tute forse sta nel fatto che facendo del volontariato si può accrescere il proprio bagaglio di vita ed esperienziale, aiutandoci ad ampliare la nostra rete sociale che decisamente potrebbe divenire più movimentata ed interessante. Il dottor Richard Davidson, neuro-scienziato dell’università del Wisconsin (USA), da anni studia gli effetti a livello cerebrale dello svolgere azioni com-passionevoli e gentili, nelle situazioni più svariate, per se stessi o per gli altri. Arrivando alla conclusione che quando facciamo qualcosa per noi stessi le emozioni positive che proviamo durano poco, mentre fare qualcosa per gli altri risulta benefico per il cervello, in quanto le emozioni positive che proviamo durano molto più a lungo, anche dopo molto tempo da quando abbiamo compiuto l’azione in se. Altri studiosi dell’università di Exeter in Gran Bretagna, invece, hanno analizzato e messo a confronto i risultati di ben 40 ricerche sul volontariato, avendo la conferma che chi si dedica a tale attività è più felice di chi non ne fa (in linea generale) e apprezza maggiormente la propria vita, risultando meno soggetto ad ansia e depressione, grazie al fatto chefacendo del bene agli altri ci si sente bene con se stessi. Se dal lato psicologico tali effetti benefici sono ormai stati più che convalidati, molto ancora c’è in atto sullo studio che correlazioni il fare attività di volontariato possa o meno aumentare le probabilità di vivere più a lungo del 20%. A tal proposito, ci sono alcuni studiosi che ipotizzano che, grazie al nostro sistema neuroimmunoendocrino (che mette in comunicazione tra loro il sistema immunitario, metabolico e celebrale del nostro organismo) i benefici del volontariato sulla mente si potrebbero ripercuotere in tutto l’organismo, donando sentore di benessere generale. Grazie anche al fatto che si fa maggiore movimento, non affossando nella vita sedentaria, facendo sì che i valori di colesterolo e peso tendono a diminuire, come ha già dimostrato uno studio condotto sugli adolescenti. Provar non nuoce. Parola di Counselor!
Written by: dr.ssa Letizia Ciabattoni
Published on: 05 january 2019
L’inizio di un nuovo anno solitamente sollecita l’attuazione di nuovi progetti, cambiamenti. I cosiddetti buoni propositi. E se vi dicessi che anziché “affogare” all’interno di questo mare di spirito di iniziativa, sarebbe più opportuno distaccarsi da ciò che davvero desideriamo, imparando così a focalizzare l’attenzione sui passi necessari da fare per conquistare i nostri sogni e ritrovare, di conseguenza, la sicurezza in noi stessi e nelle nostre potenzialità. Uno dei fondamenti di qualsiasi percorso di crescita sia personale che professionale, consiste proprio nell’avere obiettivi precisi, concreti e misurabili, poiché questi ci permetteranno di sapere con esattezza quando e se avremo o meno raggiunto l’obiettivo, pur sapendo che ciò richiede determinati costi e sacrifici. A monte di tutto dovremmo chiederci innanzitutto: cosa voglio veramente? Voglio essere felice? Come cerco la mia felicità: la cerco fuori di me, quindi nel possesso di oggetti o nella sperimentazione di determinate situazioni, oppure la cerco dentro di me, come un’identità che prescinda dall’esterno? Solitamente, una ricerca esterna a noi stessi, alla lunga può rivelarsi fonte inesauribile di stress e insoddisfazione: poiché fintanto che non otteniamo quello che vogliamo, ci sentiremo frustrati perennemente e in ansia di ottenerlo. E più ansia e frustrazione ci tedieranno, più attrarremo altra ansia e ancor più frustrazione. Ecco perché sarebbe molto utile provare a vivere distaccati dal risultato di ogni situazione che sperimentiamo. Il fine ultimo di imparare a vivere con l’impegno per migliorare il nostro futuro, restando focalizzati sul qui e ora, muovendoci verso quello che desideriamo ma distaccati emotivamente dal risultato finale e dal perenne giudizio su di esso. La cosiddetta legge del distacco emotivo indica che sarebbe opportuno rinunciare al nostro attaccamento alle cose, che non significa rinunciare ai nostri obiettivi e tantomeno rinunciamo all’intenzione, piuttosto ci distacchiamo dall’interesse per il risultato e quindi ci distacchiamo dal nostro Giudice Interiore. In tal modo, adotteremo un atteggiamento più rilassato, facendo sì che ci risulterà più facile ottenere ciò che davvero vogliamo. Questo perché il distacco si basa sulla fiducia nelle nostre potenzialità, mentre l’attaccamento si basa nella paura della perdita e nell’insicurezza. È importante capire che “distacco” non significa non amare, bensì essere autonomi, liberi dalla paura della perdita per iniziare veramente a godere di ciò che abbiamo o della persona che amiamo. Ciò non equivale a non godere e provare piacere per l’esperienza ma, al contrario, cominciare a viverla più intensamente, perché le nostre esperienze non sono più offuscate dalla paura della perdita, del fallimento. Pensiamo seriamente al fatto che per raggiungere il nostro obiettivo, possiamo seguire diversi percorsi e cambiare direzione quando vogliamo, evitando così di forzare le soluzioni ai problemi e mantenendoci attenti alle più svariate opportunità ci si presentano intorno. Questo ci permetterà di crescere come persone. Parola di Counselor!